La distruzione delle alluvioni in Emilia-Romagna, le oltre 200 vittime a Valencia, il tifone Yagi che ha devastato Vietnam, Myanmar, Laos e Thailandia uccidendo più di 800 persone e colpendo quasi 6 milioni di bambine e bambini da un lato, le dichiarazioni del nuovo Presidente degli Stati Uniti di voler uscire per la seconda volta dall’accordo di Parigi sul clima che impegna tutti i paesi sottoscrittori ad abbassare le emissioni per contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi, e il plateale ritiro dell’Argentina dalla COP dall’altro, sono lo scenario in cui è appena partita la 29esima Conferenza delle Parti (COP29) di UNFCCC la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici a Baku, in Azerbaigian.

Due settimane, fino al 22 novembre, fitte di incontri, riflessioni, negoziazioni dove sono attesi oltre 50.000 tra funzionari, decisori politici, scienziati, attivisti e investitori non solo per ragionare sulle tante facce della crisi climatica, ma soprattutto – ci si augura – per prendere decisioni concrete su come affrontarla. È oggi il più importante appuntamento dove i governi di 198 Paesi si trovano attorno ad uno stesso grande tavolo per comporre gli interessi specifici di ciascuno, sperando che questi possano fare un passo indietro a vantaggio di quelli del pianeta e del destino dell’intera umanità.

Sul piatto ci sono decisioni molto importanti, per certi versi molto tecniche e per questo poco attraenti ma fondamentali soldi per affrontare la crisi climatica. Questo è il principale tema su cui si dovrà trovare un accordo che significa identificare:

  • quanti fondi stanziare per sostenere la riduzione delle emissioni di gas serra e per l’adattamento alle conseguenze del riscaldamento climatico. Già nel 2009 si era stabilito un fondo di 100 miliardi di dollari annui per tali misure, rispettato solo nel 2022. L’accordo scade nel 2025 e va rinnovato. Gli impatti del cambiamento climatico globale sono però diventati più intensi e le cifre attuali non sono più sufficienti: le analisi indicano la necessità di arrivare ai 3-5 trilioni di dollari l’anno.
  • da chi devono essere erogate le risorse e a vantaggio di quali paesi. Il grande tema è sostenere la resilienza dei Paesi più vulnerabili alla crisi climatica. Sono per la maggior parte Paesi che in minima parte contribuiscono al riscaldamento climatico. Su questo punto assisteremo al braccio di ferro su chi deve sostenere i maggiori costi per l’adattamento tra i Paesi primi in classifica per emissioni se consideriamo quanto hanno contribuito al riscaldamento negli anni (Stati Uniti in testa), le nuove economie come quella cinese, ad oggi tra i primi produttori di CO2 annuale, e i Paesi del Golfo che hanno il maggior indice di emissioni pro-capite (sebbene pochi abitanti) e sono anche i principali produttori di combustibili fossili. L’Africa rimane l’area che contribuisce meno al riscaldamento globale in tutti i termini, ma che è di gran lunga tra le più colpite.
  • in quali modi e con quali impegni devono essere gestiti i fondi, sia rispetto a come finanziare sia a come devono essere spese le risorse da parte dei paesi riceventi.

Inoltre, la conferenza sul tema dei combustibili fossili deve assumere impegni reali nei confronti dei tagli all’uso del Gas Naturale ovvero il metano. È urgente agire perché il metano è 80 volte più impattante della CO2 in termini di riscaldamento e negli ultimi anni non solo non si sono registrati tagli significativi che ci possano portare a ridurre del 30% le emissioni entro il 2030 come concordato nella COP26 di Glasgow, ma le emissioni sono vertiginosamente cresciute (Agenzia Internazionale per l’Energia - IEA).

Lavoriamo da molti anni al fianco delle popolazioni che soffrono la perdita di raccolti, bestiame e altre fonti di reddito, case e addirittura vite umane a causa degli eventi sempre più estremi causati dall’azione umana sul clima.

Siamo impegnati anche per sostenere il protagonismo delle giovani generazioni in Italia ed Europa, consapevoli di avere di fronte un futuro fosco con crescenti disuguaglianze e conflitti. Lo scorso 18 ottobre a Bologna durante l’evento “Politiche per la Giustizia Ambientale” abbiamo condiviso proprio con giovani, esperti/e, attivisti/e e decisori politici l’urgenza di agire per invertire radicalmente riducendo consumi, emissioni e abbandonando il fossile. Il nostro ultimo report sullo stato dei diritti, il World Index on the Right of Women and Children insieme al network ChildFund Alliance di cui siamo membri, ci mostra come solo pochi progressi siano stati realizzati nell’ambito dei diritti ambientali e come questa dimensione sia fondamentale per assicurare il Diritto al Futuro per le generazioni che verranno.

Per questo chiediamo alla COP29 che:

  • Il nuovo obiettivo di finanza per il clima (New Collective Quantified Goal, NCQG) post-2025 convogli almeno 1.000 miliardi di dollari all’anno (meno di 1% del PIL globale) in supporti pubblici ai Paesi e ai gruppi più vulnerabili per affrontare la crisi climatica. Su questa cifra è necessario un impegno immediato: se ci arrivassimo entro 10 anni avremmo perso la sfida. L’obiettivo può essere raggiunto applicando il principio delle responsabilità comuni ma differenziate: un impegno proporzionale di Paesi e attori che più hanno contribuito/contribuiscono al riscaldamento. Significa tassare i super ricchi, chi più immette gas serra in atmosfera, e i grandi produttori di combustibili fossili. I fondi privati auspicati fino ad ora nei fatti non sono stati mobilitati. È compito dunque della politica imporre regole e costi a chi provoca danni climatici e ambientali. Parliamo di giustizia climatica, di diritti, e del Diritto al Futuro come emerge dal World Index on the Right of Women and Children e non di solidarietà caritatevole. La tassazione oggi è necessaria anche per evitare di ripetere gli errori del passato, proponendo meccanismi di credito che soffocano di debiti i Paesi con poca capacità di restituzione, strozzati nelle loro politiche sociali e indeboliti nell’autonomia per i quali oggi si chiede a più voci proprio di cancellare i debiti pregressi.
  • Si taglino i sussidi ai combustibili fossili, oltre 7 mila miliardi di dollari a livello mondiale. I fondi liberati serviranno a sostenere la transizione verso le energie rinnovabili e le pratiche di risparmio energetico a sostegno di persone con meno mezzi, piccole realtà produttive, e Paesi ad economie più povere. Chiediamo nel solco dell’accordo di uscita progressiva dalle fonti fossili raggiungo a Dubai a partire da questo decennio di eliminare totalmente l’uso dell’energia da fonti fossili entro il 2040. Si batte su questo punto anche l’iniziativa di parlamentari bipartisan globali Parliamentarians for a Fossil Free Future che sosteniamo. Il gas naturale non può essere annoverato tra le fonti per la transizione ecologica perché contribuisce enormemente al riscaldamento. Bisogna disinvestire sul metano.
  • Si ribadisca la volontà di rispettare gli impegni già assunti per garantire il diritto ad un ambiente sano, salubre, e sicuro per le presenti e future generazioni, secondo la Carta dei Diritti dell’ONU recepita in maniera vincolante da numerose leggi nazionali e dalla Costituzione italiana. I Paesi maggiormente responsabili storicamente e attualmente delle emissioni devono rispettare tali diritti. L’Europa deve assumere una leadership senza esitazione. Se gli Stati Uniti usciranno dall’accordo di Parigi, sarà una scelta miope, e ingiusta che produrrà danni globali e sancirà l’incapacità di essere un Paese di riferimento. È tempo che la Cina, i Paesi del Golfo e gli altri esportatori di combustibili fossili assumano nuove e più significative responsabilità sia nella transizione verso la dismissione dei fossili per le energie pulite sia nel contributo a finanziare i fondi per l’adattamento e la mitigazione.
  • La COP29 crei maggiori spazi per ascoltare la voce della società civile, metta al centro senza ambiguità i diritti umani delle persone rispetto agli interessi dei privati ed assuma impegni specifici per la tutela dei difensori dell’ambiente. Le persone sono in molti casi più attenti e consapevoli dei loro governanti, come testimonia il movimento Grow the Future. Sono necessarie regole chiare e trasparenti per sterilizzare i conflitti di interessi dei produttori di fossili sempre più presenti alle COP. Queste siano per il settore energetico un propulsore verso la transizione ecologica e la giustizia ambientale. Per la terza volta, dopo Sharm El Sheik e Dubai, la COP è ospitata da un paese produttore come l’Azerbaigian. Al raddoppio della produzione di gas che il portavoce azero rivendica in risposta alle richieste del mercato, i Paesi, tra cui l’Italia, devono rispondere con un taglio concreto della domanda, possibile solo con l’accelerazione verso le rinnovabili.

Il 2024 è già candidato ad essere l’anno più caldo mai registrato toccando un riscaldamento in media di 1,5 gradi, un indicatore anche simbolicamente significativo, sebbene non sufficiente a dirci di aver già perso la sfida (perché il riscaldamento medio si calcola su un arco temporale più esteso). Ma il segnale è chiaro: la direzione va cambiata.

La COP29 sarà una cartina tornasole per capire se davvero si vogliono dare gambe agli impegni presi lo scorso anno e se si vogliono gettare le condizioni per una reale riduzione delle emissioni. Infatti, la decisione sui fondi da prendere quest’anno impatta sulla capacità di porsi obiettivi ambiziosi sull’abbattimento dei gas serra, di cui si ridiscuterà a COP30 in Brasile nel 2025.

La crisi climatica travalica i confini e i nazionalismi: solo con l’azione congiunta a livello locale e internazionale possono essere raggiunti risultati significativi. Per questo è importante che nei prossimi 10 giorni si arrivi a decisioni rilevanti per rafforzare il ruolo delle COP e non svuotare i sistemi di negoziazione multilaterale come in diversi scenari si sta cercando di fare: significherebbe regredire di un secolo e non avere strumenti adeguati a gestire l’enorme complessità attuale.