Non possiamo rimanere in silenzio. Il governo prenda immediati provvedimenti.

La morte di Satnam Singh sconvolge e indigna, riaccedendo i riflettori su un fenomeno quello dello sfruttamento agricolo in crescita e sempre piu diffuso in Italia: interessava 1 bracciante su 6 sfruttato nel 2018, 1 su 4 nel 2022 (Osservatorio Placido Rizzotto), di questi l’80% sono migranti.

Lo abbiamo raccontato in quattro rapporti realizzati con Marco Omizzolo e altri ricercatori pubblicati negli ultimi due anni che, proprio a partire dall’Agropontino, hanno toccato anche le campagne piana del Sele in Campania a sud e la Toscana verso nord.

Diversi i contesti, diverse le filiere dell’ortofrutta, dalla quarta gamma - quella delle insalate lavate e pronte ad essere consumate - a quella dell’uva per la produzione dei vini toscani. Diverse le sfumature, dal nero al grigio, perché così si caratterizzano i rapporti di lavoro: braccianti senza alcun contratto (lavoro a nero) come nel caso di Satnam Singh e braccianti con buste paga che riportano solo una piccola quota delle ore veramente lavorate (lavoro grigio). Stessi però sono i meccanismi e le relazioni dello sfruttamento, con sistemi di intermediazione illecita dei braccianti dominati da caporali a cui si affiancano, più recentemente, aziende “contoterziste” o “aziende agricole senza terra”, che forniscono manodopera principalmente di origine straniera attraverso contratti regolari, ma a costi molto bassi che si traducono in condizioni di sfruttamento.

Nelle campagne dell’Agropontino, le lavoratrici indiane, rumene ma anche italiane ci raccontano giornate lavorative di 16 ore, 7 giorni su 7 per 4,5-5 euro all’ora. Si lavora in ginocchio tutto il giorno con pause ridottissime, o in altezza in condizioni inaccettabili di sicurezza, in alcuni periodi sopportando temperature estreme o in serre dove uomini e donne respirano pesticidi senza dispositivi di protezione individuali.

Un altro problema erano gli infortuni. Se avevi un infortunio non potevi fare nulla, non ti portavano in ospedale. Questo vale, per quello che ho sentito da amici di mio marito, per molte aziende, non solo per quella in cui ho lavorato. Una volta un lavoratore si è tagliato un dito. Il capo gli ha messo un po’ d’acqua, un fazzoletto e lo ha accompagnato a casa chiedendogli di non andare al Pronto Soccorso.”  È la testimonianza che abbiamo raccolto da una bracciante indiana della provincia di Latina.

Ogni tanto c’era anche qualche infortunio. Io stessa sono caduta varie volte dal trattore, oppure nei canali che circondavano la terra ma non ci sono mai state denunce, ricoveri in ospedale e nessuna di noi è mai stata portata al Pronto Soccorso. Non si va mai al Pronto Soccorso o se vai il padrone ti dice che devi dichiarare di esserti infortunata a casa.” racconta un’altra bracciante indiana intervistata assieme a Marco Omizzolo proprio nelle terre dove si è consumato il dramma del giovane Satnam Singh.

Abbiamo raccontato il fenomeno con lo sguardo femminile (le braccianti agricole immigrate sono cresciute del 200% in dieci anni, dal 2028), dove la discriminazione razziale si salda a quella di genere, e alle violenze perpetrate anche verso gli uomini si aggiungono quelle sessuali: dagli insulti, ai palpeggiamenti, agli stupri.

Uomini e donne trattati come strumenti, oggettivizzati in un sistema di vera subordinazione patronale, discriminazione, violenza.

Nelle diverse forme di sfruttamento il controllo, il silenzio, l’umiliazione, l’intimidazione, il ricatto rappresentano strumenti generalizzati di pressione e repressione tese a rafforzare l’isolamento ed evitare forme di ribellione.

Questa realità non rappresenta certamente tutte le imprese agricole che operano sul territorio. Ma è in questo contesto che dobbiamo leggere la morte di Satnam Singh.

La sua tragedia è il risultato di un sistema dove convergono gli obiettivi economici di riduzione all’osso dei costi, il razzismo in cui le persone immigrate, specie se di origine lontane, sono ritenute di categorie inferiori secondo una precisa gerarchia su base etnica e un quadro di leggi, a partire dalla Bossi-Fini sull’immigrazione e i successivi provvedimenti repressivi che ostacolano la regolarizzazione delle persone migranti sul territorio, emarginandole e ghettizzandole pur rappresentando forza lavoro ampiamente impiegate in molti settori come l’agricoltura.

Si incarna in un modello economico estrattivista, caratterizzato da catene del valore lunghe e spesso opache, altamente competitive e dominato da concentrazioni di potere di mercato, inclusa la grande distribuzione, in cui la produzione del prodotto agricolo viene remunerata non più del 5% (ISMEA, 2019) del prezzo di vendita. In alcuni casi trovano spazio anche le agromafie con un business che in Italia vale 24,5 miliardi di euro l’anno (Eurispes, 2018)

Non va dimenticata la connivenza culturale delle comunità in cui le persone migranti vivono e lavorano che “tollera” meccanismi di sfruttamento e assicura benefici non solo agli imprenditori agricoli, ma anche a chi affitta alle persone immigrate immobili senza contratto, o gode di servizi di badantato irregolare e a basso costo.

Non vogliamo tacere che la presenza sul territorio italiano di pratiche fortemente lesive della dignità e dei diritti e continui ad essere sottovalutata, dal governo italiano e dalle relative politiche migratorie e del lavoro.

Da tempo si denuncia la situazione nell’Agropontino. E’ necessario alzare la voce, avanzare richieste di intervento urgente alle istituzioni. Noi siamo al financo degli immigrati e delle immigrate,  dei laboratori e delle lavoratrici italiani che subiscono tali violenze, nella provincia di Latina, e in altre campagne italiane.

Chiediamo interventi diretti e decisi per condannare e sradicare lo sfruttamento di tutte le persone nei posti di lavoro con l’aumento delle risorse per assicurare maggiori controlli, una più efficace applicazione della legge sul caporalato e sulla sicurezza sul lavoro, un effettivo meccanismo che condizioni l’erogazione di finanziamenti in agricoltura all’osservanza di leggi sui diritti del lavoro ed umani in linea con la nuova Politica Agricola Comune.

È urgente assicurare una completa protezione per chi denuncia e per le vittime.

Inoltre, è necessario rivedere il quadro legislativo sull’immigrazione che deve essere teso a tutelare i diritti e la dignità in particolare di lavoratori e lavoratrici marginalizzati e più vulnerabili.

Il Governo si adoperi anche per una legge italiana ambiziosa che recepisca la recente direttiva sulla dovuta diligenza d’impresa in materia di diritti umani (CSDD), capace di prevenire ogni forma di sfruttamento e assicurare un più completo risarcimento delle vittime. 

Come spieghiamo in Imprese e Diritti umani. Un sistema in movimento verso la direttiva UE (Secondo Rapporto dell’Osservatorio permanente  sulle politiche e strategie delle imprese in materia di Diritti umani (OIIDU, 2024) la legge potrebbe offrire un ulteriore prezioso strumento contro il caporalato e le gravi forme di violazione dei diritti umani nelle pratiche aziendali.

Inoltre, se parallelamente non si agisce sui processi culturali che producono forme di disumanità che ci consegna la tragedia di Singh non si riuscirà a raggiungere un vero cambiamento.

Tutto questo non può essere fatto senza il coinvolgimento attivo della società civile, dei sindacati, delle associazioni dei migranti, delle istituzioni e delle comunità locali. Continuiamo a lavorare su tutti i livelli con la sensibilizzazione, la denuncia, la richiesta alle istituzioni, al settore privato e ai consumatori di abbracciare convintamente modelli di sviluppo tesi al benessere di tutte e tutti senza discriminazioni, presupposti per una convivenza sostenibile e pacifica.

Photo credit: Vincenzo Montefinese per WeWorld